La storia inizia quasi vent’anni fa, direi. Eravamo studenti universitari, ognuno con le sue proprie vicende sentimentali, alcuni anche con amori lunghi e duraturi (era il mio caso, ma non solo). Unico caso di singleità senza compromessi era quello di Alessandro, il quale se ne lamenteva parecchio, ma faceva assai poco per mutare il suo stato civile: “rassegnato”. Finché non spuntò, dal nulla donchisciottesco e sanchopanziano della Mancha, la figura mora e intensa di Maria Dolores. Alessandro si innamorò, e anche lei. Fu un fuoco rapido, qualche mese di fidanzamento, la convivenza a Verona, la scarsità di preservativi, la gravidanza di lei, un figlio, il fiocco azzurro sulla porta dell’appartamento in affitto. L’età adulta si fece improvvisamente incombente su tutti noi.
Maria Dolores, da Ciudad Real, era arrivata a Milano grazie al «progetto Erasmus»; nessuno di noi sapeva bene che cosa fosse (si favoleggiava di anni passati all’estero a studiare chissà cosa), ma in un baleno, visti gli esiti subitanei, esso venne ribattezzato «progetto Orgasmus». Eravamo giovani e dall’umorismo greve, non siate severi. E restava comunque un mistero la natura del benedetto Erasmus (non quello di Rotterdam, che si sapeva più allora di oggi), il suo essere «progetto», come quelli degli architetti, e il suo inquietante far parte di un progetto ancora più grande, cui era stato dato l’altisonante nome di progetto Socrates: tutte cose che ora sappiamo assai bene.
E qui la vecchia storia finisce, e ne comincia un’altra. La quale prende le mosse da un paio di belle definizioni.
«Erasmus garantisce la possibilità di trascorrere un periodo di studio (da tre mesi a un anno) in un altro stato dell’Unione europea e di ricevere il pieno riconoscimento di tale periodo come parte integrante del corso di studio.» Erasmus «contribuisce alla promozione di un’Europa della conoscenza». «Grazie ad Erasmus i nostri studenti beneficiano della possibilità di fare un’esperienza formativa in un’università straniera.» Ho preso i virgolettati dal sito dell’Univeristà di Milano; ma qualunque altro ateneo sarebbe stato uguale. E vi prego di prendere nota di alcuni termini: periodo di studio; un’Europa della conoscenza; fare un’esperienza formativa. Prendetene nota, perché altrimenti si finisce per badare alle parole, come dice la mia amica sogliola, e mai ai fatti.
E i fatti sono altri. I fatti sono che a “fare l’Erasmus”, secondo le statistiche, sono soprattutto gli studenti di lingue (che si può capire), di scienze sociali e di scienze della comunicazione (che si capisce di meno), di lettere e filosofia (che non si capisce proprio). Quelli che vi partecipano in misura drasticamente minore sono gli studenti di facoltà scientifiche, e in particolare di medicina e di ingegneria (sarà perché studiano un po’ di più? Non siate maliziosi, che non è bello: a pensar male si fa peccato).
I fatti dicono anche che molti degli studenti di lettere che partecipano all’Erasmus finiscono per sostenere almeno un esame di letteratura italiana all’estero. Avete capito bene: letteratura italiana; all’estero, in una lingua straniera, con un docente straniero. Ma non solo. Guardate un po’ quello che c’è scritto qui: gli esami si fanno da “erasmiani”, si va a parlare con il prof, ci si mette d’accordo, si studia niente, si arraffano i crediti formativi necessari, «si prendono voti più alti» (lo dice lui, eh, mica io). Poi non si sa la letteratura italiana, ovviamente, ma per uno studente di lettere cosa volete che sia. Che tanto la poesia non è mai mica servita a niente.
I fatti dicono poi che le mete scelte per l’Erasmus sono sempre le stesse. In particolare: nei primi dieci posti nella graduatoria delle mete preferite dagli italiani ci sono dieci università spagnole: cha sia Madrid o Barcellona o Siviglia o Salamanca o addirittura Alicante (Alicante? Che ci vai a fare ad Alicante? È un po’ come venire in Italia a conoscere la cultura italiana e poi andare a Gaeta, con tutto il rispetto per Gaeta), sempre di Spagna si tratta. Se si fa il conto tra gli studenti europei, le mete sono le stesse, con l’aggiunta nei primi posti di Bologna, Roma e Firenze. Cioè: Spagna e Italia assorbono da sole quasi i tre quarti degli studenti erasmiani di tutta Europa. Vi comincia a venire qualche dubbio?
(A me i primi dubbi sono venuti anni fa, quando ho visto quello spaventoso film di clamoroso successo – citato come oracolo da tutti i sinistri della prima circoscrizione, tipo Barbara Palombelli se ci capiamo – di Cédric Klapisch, L’appartamento spagnolo. Senz’altro lo avrete visto anche voi; se invece siete fortunati e non vi è capitato, immaginatevi una pubblicità del viakal, con bei giovanotti e belle giovanotte, visite a sorpresa, lavandini da lucidare, donne in attesa del bagno, ma fate in modo che il tutto duri circa un’ora e quaranta, niente di più, niente di meno. Una valanga di idiozie in formato sedici noni.)
(Poi altri dubbi mi sono venuti quando una collega mi parlava dell’Erasmus a Granada di una sua amica con grande entusiasmo, ripetendomi: «si sta divertendo come una pazza, come una pazza»; il che sottintende: 1.che i pazzi si divertono molto. 2. che quello è lo scopo del progetto «culturale» e «formativo»: divertirsi. E che cosa c’è di male nel divertimento? Niente, ci mancherebbe. Ma non so se si possa definire «formativo», però. O forse invece lo so, ed è proprio quello che mi raggela.)
I dubbi che vi stanno venendo, quindi, sono giustificati. Le università spagnole non brillano per eccellenza, tra le altre cose. Non è esattamente come andare a Oxford o a Harvard. Mentre altre cose spagnole sono eccellenti per definizione: la movida, per esempio, la musica o le feste. I nostri quotidiani, senza accorgersi minimamente che stavano scrivendo una cosa di pesante impatto sociale, lo annotavano già alcuni anni fa: leggetelo pure lì, movida, feste, musica. E poi lo spagnolo appare a tutti facile facile, si aggiunge qualche esse, come faceva il buon Troisi quando non ci restava che piangere, e il gioco è fatto. Poi se non si danno esami quello che conta è «fare l’esperienza», tra l’altro. Gli esami vedremo poi. Guardate per esempio un qualsiasi sito web o blog tenuto da qualche erasmiano di ritorno: amicizie, feisbuk, bevute, ecc. Niente di male, intendiamoci. Che anzi, lo farei anch’io. Ma non mi tirate fuori la conoscenza e l’esperienza educativa. Quando lo facevo (e lo faccio) io, si chiamava cazzeggiare, oppure perdere tempo, o anche fare incazzare i genitori. Ora si chiama «esperienza formativa», ma sono soltanto parole, però.
I fatti, dunque, restiamo ai fatti. E i fatti sono che sostanzialmente si va in giro per l’Europa a non fare nulla per qualche mese. L’Unione europea ci mette un po’ di soldi; un altro po’ di denaro lo aggiungono gli enti locali e le università nostrane (i loro fondi sempre così scarsi, che dio li benedica); una bella fetta del gruzzolo la devono mettere mamma e papà, inebriati dall’esperienza formativa del loro pargolo, che i soldi della borsa di studio non possono mica bastare, se devi stare in giro a cazzeggiare tutto il giorno: e il gioco è fatto. Il gioco, appunto. Si sta insieme ad altre persone, che come te non fanno nulla, in un paese straniero, poi si torna a casa «ed è stata un’esperienza bellissima». La vita all’estero. Si mantengono i contatti. Si fanno vedere le fotografie. Come dar loro torto? Non fare nulla è sempre un’esperienza bellissima. Ma mi direte: «Però imparano le lingue». Vero, forse, ma non è neppure detto. Che per la maggior parte gli italiani stanno con gli italiani e imparano giusto a dire graçias (pronunciato male) o coño, che insomma non è proprio l’imparare che uno si immaginava. Peraltro resta il dubbio che imparino soltanto la lingua; e che poi abbiano da dire soltanto idiozie, perché non hanno imparato nient’altro. Tanto che tra il saper dire idiozie in due o tre lingue o in una solamente, capite benissimo da soli voi che cosa è meglio.
Io davvero non capisco che cosa ci sia di formativo in tutto questo. A dire la verità mi rifiuto proprio di capirlo. Sarà l’età, sarà la senilità intellettuale, non so. Secondo me cazzeggiare in giro con gli amici è bellissimo, farlo all’estero dove si ride tanto perché non si capisce niente è ancora più bello. Ma si tratta di cazzeggiare però, mica di esperienze formative. Sono le parole ad agitarmi. È l’inganno che ci sta dietro, appena nascosto dai suoni eleganti di certe espressioni, a farmi innervosire e diventare antipatico. Mi pare che si giochi sempre allo stesso gioco: fare finta di “formare” con l’obiettivo palese, anche se non dichiarato, di “deformare”, invece. Con il chiaro intento di produrre una generazione di laureati che ne sappiano poco e credano di saperne assai. Perché è questo l’unico modo per entrare ottimisti nel supermercato dell’esistenza. Che poi non è un supermercato, e quindi non ne uscirai affatto felice; ma a quel punto, chi se ne frega, sarà tutta e soltanto colpa tua.
Tutti a benedire l’Erasmus, quindi. E anche l’Orgasmus, naturalmente: che una trombata all’estero ci scappa quasi sempre e non che sia un male (che anzi, avercene), ma è una trombata «formativa», che non vi sfugga questo particolare (e non vi sfugga che anche in questo Alessandro e Maria Dolores furono dei precursori, beata giovinezza). Tutti a benedire il sacro divertimento, la sua insita capacità di educare: educare al consumo, al gratta e vinci, al gratta gratta che sotto sotto non c’è nulla.
E qui finisce anche la seconda storia, e ne comincia una terza, brevissima.
Il progetto Erasmus non è un affare indipendente, in realtà. È figlio prediletto del progetto Socrates, che lo ha partorito con dolore (erasmus chiama parto, ve ne siete accorti?). Forse, visto che magari avete alle spalle studi classici di cui andate fieri, pensate di sapere chi è Socrates? Vi sbagliate di sicuro. Socrates, infatti, fu invece un giocatore di calcio brasiliano degli anni ’80, soprannominato il «tacco di Dio». Venne acquistato dalla Fiorentina nel 1984 e parve un grandissimo colpo di mercato. In realtà fu una terribile delusione. Arrivò a Firenze e non faceva nulla. Non si allenava, beveva un sacco di birra, fumava di tutto, passava le notti nei locali notturni, alla domenica scendeva in campo come uno zombie, non faceva mai niente di quello per cui era stato pagato e confessò di essere venuto in Italia solo per divertirsi, che del resto non gliene fregava niente. Per lui era un’esperienza culturale, evidentemente.
Ed è a lui, senza dubbio, che si ispira il progetto di formazione europea dei giovani.
Condivido in pieno la tua ironica e disincantata analisi. Per la serie: iniziamo a chiamare le cose con il loro nome! 😀
Come spesso accade, si tende a denigrare il fatto piuttosto che le persone. Sono le persone che decidono di vivere l’Erasmus in un modo deviante, non il progetto ad esserlo.
Posso affermare da ex-erasmus che la tua analisi è lucida e rispondente al vero, per moltissimi versi. Ma è anche necessariamente parziale e un po’ faziosa.
Paragonare una cittadina come Alicante a Gaeta (con tutto il rispetto per Gaeta) significa ignorare che possono esserci buoni atenei anche in città minori. Mi sono laureata in Lettere all’Università dell’Aquila: dovrei vergognarmi rispetto a chi lo ha fatto a Bologna, a Roma, a Milano? Non credo proprio.
Il mio Eramsus l’ho fatto a Oviedo (non mi vergogno nemmeno di questo. Ho perso l’unico posto disponibile per Madrid perché il mio amico – molto più preparato di me – mi ha superata in graduatoria).
I miei compagni italiani erano per il 70% provenienti da Lingue e da (sorpresa!) Economia e commercio e Fisica.
Ho dato gli esami insieme agli studenti spagnoli e ho preso i voti (anche bassi) che meritavo, perché i miei docenti non mi consideravano persona da favorire, in nessun modo.
Non ho dato esami di italiano, sarebbe stato paradossale. Ho studiato invece lingua spagnola (ovviamente), storia dell’arte, storia delle arti visive e del cinema, storia contemporanea, traduzione letteraria.
Non voglio dire che la mia esperienza sia stata l’esatto contrario di ciò che racconti. Al contrario: nelle tue parole riconosco moltissimi degli atteggiamenti e delle persone che ho avuto modo di frequentare…e anche me stessa. In quei nove mesi mi sono divertita, ho fatto bagordi e trombato alla grande. Esattamente come facevo (e ho continuato a fare) in Italia.
Sarei ipocrita se dicessi che non ho perso tempo, dal punto di vista accademico. In quei nove mesi in Italia avrei dato più esami e, a conti fatti, mi sarei laureata prima.
Ma non parlerei in modo eccellente una lingua straniera, cosa che mi ha offerto numerose opportunità professionali. Non avrei cambiato il mio percorso di tesi prendendo la strada delle letterature comparate, che mi ha dato soddisfazioni immense. Non avrei conosciuto persone e culture diverse. Non avrei (forse ne avrei meno) la mentalità aperta al dialogo e all’accoglienza che ho ora.
Non esiste solo la formazione accademica nella crescita di un individuo. C’è anche la formazione umana, sociale, culturale nel senso più ampio.
Il progetto Erasmus è un ottimo modo per crescere, in questo senso. I tanti ragazzi che lo vivono solo come una bella occasione di sballo e di divertimento non andrebbero molto lontano nemmeno in Italia.
Non è il progetto, sono le persone.
E’ vero: generalizzare non ha molto senso e sono sempre le persone a decidere la qualità di qualsiasi cosa o progetto. Ma io, che pure ho studiato lettere, ho visto tantissime persone (praticamente tutte) provenienti dall’estero sostenere, grazie al mitico figlioccio di Socrates, esami di letteratura italiana biscicando a malapena qualche parola in italiano, con un’idea molto vaga della nostra storia letteraria, per ottenere infine un 18 e un calcio in culo. Se questa è l’idea di incontro con altre culture, beh, mi pare come minimo un incontro un po’ superficiale.
Io l’Erasmus non l’ho fatto, perchè non c’era. Altri tempi. L’inglese l’ho imparato lavorando in Olanda, a mie spese (vita grama, garantito). Torno in Italia, fuggendo dai rigori invernali del Thorax Centre di Rotterdam, dove la frequentazione in ospedale cominciava all’alba e finiva a tarda sera. Mangiato merda, trombato niente, imparato un casino (gli olandesi col cuore ci sanno fare). Passano gli anni e mi capita di incontrare alcune giovanotte (spagnole e polacche) e un tedesco, che malauguratamente decisero di trascorrere il loro Erasmus a Brescia (la leonessa d’Italia), e nel mio reparto di Terapia Intensiva. Nel rispetto di quanto immaginavo costasse all’Europa ‘ste storia dell’Erasmus, piazzo lì un bel programma formativo: lezione frontale ore 7.30, discussione collegiale dei casi clinici ore 8.30-10, esperienza in sala di emodinamica ore 10.30 -14.00 e pomeriggio libero (libero, sì, perchè già allora pensavo che un giovane potesse anche godersela e non mangiare pane e medicina come era toccato a me nel paese dei tulipani). Fallimento totale: le signorine e il signorino giungevano in H alle 10 circa, fremevano per uscire alle 12 circa. Un catetere in mano (quello per fare le coronarografie) neanche a pagarli.
Rimpianti? Per quanto mi riguarda nessuno, nemmeno per quando sono venuti a ringraziarmi alla fine, e li ho mandati a cagare.
Io l’Erasmus l’ho fatto più che altro per fare pratica, visto che in Italia durante l’università la pratica scarseggia… Dopo 3 mesi però me ne sono tornato in Italia, perché in Spagna, a forza di movida e fiumi di sangria, rischiavo di dimenticare pure come si usa un fonendoscopio.
A Murcia di gente ne ho conosciuta tanta, quasi tutti gli stranieri provenivano da facoltà umanistiche, gli studenti in medicina come me erano veramente pochi…la maggior parte era lì per cazzeggiare, inconsapevoli che certe opportunità (tipo quella di entrare in una sala di emodinamica al quinto anno di università) in Italia non te le sogni nemmeno.
Ora che sono al terzo anno di specializzazione, e devo conquistarmi a gomitate l’accesso in sala per fare un diagnostico, pagherei oro per stare 14 ore al giorno al Thorax Centre.. Anzi, sogliola, qualsiasi consiglio per riuscire a volare nel paese dei tulipani è ben accetto!
Caro giovane amico, innanzitutto se uno sgomita per fare un diagnostico significa che, primo, ha passione, secondo, vive in un ambiente di emme come di solito sono le Università, terzo, è confuso dall’idea della superspecialità. Elementi utili e pericolosi al contempo: la passione, può farti fare scelte affrettate, l’Università, se autoreferenziale, ti mostrerà miraggi anziché orizzonti, l’emodinamica, può chiuderti nel vicolo buio della tecnologia per sé. Il consiglio è di cercarti una Cardiologia ospedaliera vicino casa, un ambiente come si deve, e lì andare la sera, il sabato o la domenica e sempre quando puoi fuggire dalla legna che seghi all’Università; secondo, chiedere, come ti spetta, un soggiorno altrove, anche al Thorax, dove capire come stanno realmente le cose (due righe cortesi a Patrick Serruys, Dr Molewaterplein 40, Rotterdam 3015); terzo, non farti tentare dalle vie traverse, politiche o altro, perché uno stronzo, seppure in Cattedra, sempre stronzo rimane.
Bussa alla porta di persone intelligenti, quindi, chiedi permesso con gentilezza, e offri la passione come unica garanzia delle tue buone intenzioni. Gira voce che il tempo sia galantuomo.
Beh intanto due righe gentili le scrivo a te… hai ragione sono appassionato ma che vuoi farci sono ardori giovanili (e in fondo spero non mi passino mai), l’emodinamica mi piace un sacco lo ammetto è forte, spesso risolutiva, può fare la vera differenza.. però non voglio avere i paraocchi, è solo il pezzetto che mi affascina di più di un bel quadro, la cardiologia, come potrei non guardarlo tutto con attenzione e cercare di conoscerlo il più possibile, non ne capirei il senso e il senso è credo, fare il medico, un buon medico, un buon cardiologo. Sono stato un po’ contorto ma spero tu mi capisca. L’Università e i titoli universitari mm.. non mi va di parlarne, credo ci siano cose più vere e poi io non cerco professori, semmai maestri..
Riguardo all’andare fuori.. mi sa proprio che sarò una spina nel fianco del mio caro Dir. Prof. …
( si si lo so che il tempo è galantuomo e che potrei anche aspettare un po’ ma non sarei uno squaletto…)
Ti ringrazio.
Concordo pienamente con l’analisi di ‘sindromedisnoopy’. E aggiungo, crudamente, che se sei un fancazzista, lo resterai nella tua università come ad Alicante. O ad Oxford.
Io l’ho fatto l’erasmus. A Basilea. Devo dire che non ho accademicamente fatto tantissimo (ma mi ero fatta il mazzo per fare più esami prima, e restare in pari). L’esperienza mi è servita ad imparare il tedesco, e a capire che esiste lo ‘Schwizerdütch’. E mi è servita anche a uscire di casa, alla veneranda età di 23 anni, a imparare ad arrangiarmi da sola. Cose che non si imparano, se resti ad ammuffire dai genitori fino ai trenta inoltrati, con la scusa che sei studente e soldi non ne hai. Sono d’accordo che l’indipendenza dai genitori è un altro capitolo, che non dovrebbe essere l’università o l’unione europea ad occuparsene.
Però erasmus non è solo questo: io ho conosciuto un altro ambiente accademico, più piccolo ed informale. Ho fatto anche qualche esame, in tedesco, e me lo sono anche sudato. E non credo di essere stata nemmeno l’unica. Vedo che molti ragazzi che fanno ora l’erasmus a Parigi magari si sfondano di vizi nel week end, ma il lunedì sono in piedi per andare a fare stage, tirocinio, lezione fino al venerdì. In ospedale, in laboratorio: ci sono moltissimi studenti delle facoltà scientifiche.
Per quanto riguarda le parole usate nei siti dell’università, che si dovrebbe scrivere, altrimenti? Non sono le sole menzogne, e nemmeno le più gravi…
Piuttosto, si potrebbero adottare varie misure che impediscano il ‘cazzeggio a spese dei contribuenti’: vincolare la borsa di studio (peraltro misera: lo stato mi dava 120 euro al mese, mi ricordo) al superamento degli esami indicati nel learning agreement, o almeno alla frequenza alle lezioni, ad esempio.
Io sono in Erasmus in questo momento, in Spagna, piu’ precisamente a Valladolid, e ci tengo a precisarlo, perche’ cosi’ come Alicante, Salamanca e via dicendo, anche Valladolid puo’ venire giudicata superficialmente da chi come te la vede da lontano: non conoscendo la realta’ spagnola, e’ facile associare queste destinazioni a quella Spagna stile Ibiza, che piace tanto a noi italiani quando arriva l’estate e scatta la modalita’ cazzeggio: poi pero’ vieni qui, e capisci che Salamanca non e’ niente di meno che uno degli atenei piu’ antichi d’Europa, assieme a Oxford e Cambridge (!); Valladolid e’ capoluogo di Castilla e Leon, ex capitale spagnola, culla dello spagnolo piu’ puro, e una citta’ non meno lavorativa di altre italiane…. Le lezioni in universita’ iniziano alle 8 e 30 del mattino, e durano anche fino alle 10 di sera; non si puo’ saltare lezione, perche’ prendono le firme e se non si frequenta almeno l’80% del corso, non ti fanno poi fare l’esame; e inoltre, essendo le lezioni in una lingua diversa, bisogna sempre tenere in classe un livello di concentrazione piu’ alto del normale. Poi torni a casa, fai la spesa, le pulizie, e si e’ talmente stanchi che non sempre si ha voglia di uscire a far baldoria; i soldi scarseggiano comunque, e quindi non si puo’ nemmeno andare a fare i weekend a Barcellona o a San Sebastian, come ci pare e piace. Con questo non dico che non ci si diverta, anzi; ci si sente solo molto piu’ liberi, con tutti gli aspetti positivi e negativi che questo comporta. Inoltre, io sto frequentando la Facolta’ di Economia e Scienze Impresariali, posso sostenere tutti gli esami che voglio, anche da diverse facolta’, unico vincolo, un massimo di 30 crediti formativi universitari totali: quindi non si ‘perde tempo’, e gli esami, volenti o nolenti, si devono dare, altrimenti non ti accreditano lo status ‘Erasmus’ che, oggi come oggi, fa gola alle imprese quando ti assumono, o ad altre universita’ (specie quelle piu’ proiettate all’internazionale, e quindi concedimelo, al futuro) nelle selezioni per accedere alla specialistica, per esempio. Questo per quanto riguarda il lato pratico. Se guardiamo invece l’aspetto formativo- culturale di questa bellissima (-eh si, mi spiace per te, ma e’ proprio bellissima!) esperienza, ci vuole un grande coraggio, spirito di adattabilita’, elasticita’ e apertura mentale per affrontare questa esperienza di vita, perche di questo si tratta: e’ non c’e’ universita’, italiana o qualsivoglia, che accademicamente soltanto possa darti tutto questo. Sono cambiamenti esteriori forti che si ripercuotono dentro e ti fanno crescere: di fatto, sono numerosi quelli che ci rinunciano, qualcosa vorra’ pur dire, no? Mi spiace che ci siano persone che la pensino come te.
Reciba un cordial saludo,
Rebecca
ciao rebecca, scusa se mi infiltro, siccome verrò anch’io a valladolid, vorrei poter avere qualche informazione… aggiungimi su msn se vuoi: sweety614@hotmail.it… grazie!