Ah, ragazzi miei, miei piccoli uomini, piccole donne di prima liceo, che mi chiedete per la decima, la centesima volta una precisazione sulle coniugazioni dei verbi latini… Latini o italiani non fa differenza, non riuscite a capirlo? Sono verbi, sempre verbi, infinitamente e indefinitamente verbi. Nient’altro che maledetti verbi da coniugare, da smontare e rimontare, senza mai azzeccare la combinazione esatta. Perché costruiamo sempre e solo verbi, in realtà; da quando il linguaggio è diventato grammatica e sintassi, da quando ha smesso di essere grugnito per articolarsi in suoni e parole e relazioni di causa ed effetto. Ognuno alla ricerca del suo verbo, del modo e del tempo e della forma di quel verbo, che era in principio e che probabilmente non sarà mai più; se non alla fine del tempo, quando i tempi non saranno più, e neanche le coniugazioni.
Perché in principio era il verbo non coniugato, potete starne certi; e ora invece è solo quello coniugato, anche all’infinito, che è pur sempre una sottile e nascosta forma del coniugare. E c’è qualcosa, in quel «coniugare», verbo anche lui, che è minaccioso: nel suo essere cum iugare, «legare insieme», «mettere sotto lo stesso giogo», come con i buoi, come con gli animali schiavi (ecco perché i «coniugi», entrambi sotto un giogo, anche loro, non sembrano mai troppo felici). È una forma di schiavitù, la coniugazione: e in principio era il verbo libero, invece. Ed è difficile adesso, in questa schiavitù, trovare tracce di quella splendida libertà.
Nessuna indizio, senz’altro, potrà mai stare dentro l’aggressività dell’indicativo presente, nessuna risposta, ragazzi, in quella sua simultaneità così bugiarda, così assurda: io ti amo, io ti bacio, io sono, come se in quell’attimo ci potesse stare davvero dentro qualcosa… Che tutto passa subito, invece, che è già passato prima di essere pensato. Nulla, nel presente indicativo, oltre all’atto maldestro dell’indicare, con quel dito indice che non sa inchiodare nemmeno un attimo del tempo al suo presente. Abbassatelo, quell’indice, che è maleducazione. Abbassatelo, che tanto il presente vi sfugge via, è già sfuggito, non si fa mica indicare, né prendere, né imprigionare. Forse, magari, con un po’ di fortuna, il presente vi potrebbe aiutare se fosse iterativo, come dicono i grammatici, quella dolcezza dell’abitudine, io sono al tuo fianco, tu ami la musica: quel prendere insieme l’oggi, una briciola di ieri e anche un po’ di domani… ma è troppo generico per essere lui, il tempo del principio. Non si comincia con un’abitudine, ma con uno scatto; e il presente non è mai presente, in fin dei conti. È ingiustificatamente assente, perlopiù.
Allora vi toccherà prima o poi, come a tutti, rifugiarvi nei passati, che sono facili e che si trovano ovunque. Trovare conforto nella bellezza lieve dell’imperfetto, quel suo durare indistinto e impreciso, quando ti amavo, ogni volta che ti baciavo, mentre vivevamo insieme, mentre vivevo. Ma non vi basterà un passato così vago, senza limiti, una durata che non è tempo ma piuttosto il dilatarsi informe del tempo imprendibile. Ha un bel nome l’imperfetto: che vi ricorda di cosa siamo fatti, tutti quanti, l’imperfezione; ma non può bastare il nome, se sta a significare che nulla è compiuto e che tutto si deve ancora compiere. E come fidarsi allora del passato remoto, di quella sua perentorietà così distante dall’imperfezione umana? Non potrete: tu mi amasti, quei suoni duri, in cui nulla di buono può celarsi se non la fine delle cose, improvvisa e crudele, noi vivemmo: e ora non siamo più. Eccolo, il remoto, lontano chissà quanto, l’indicare crudele del tempo passato, il suo terribile rifiuto della reversibilità: c’è tutto il dolore del tempo che passa nel remoto di questo passato che è passato per sempre.
E se non fosse per la sua rarità, anche il trapassato remoto avrebbe la sua stessa ferocia: io ebbi amato, ella ebbe baciato; ma vi fa troppo ridere per essere cattivo, questa specie di mostro che è quasi fuori del tempo, al cui passato così lontano non si può nemmeno più credere. Meglio credere al passato prossimo, invece, sentirne i passi nella vita quotidiana e costante, io ho amato, io ho letto, io sono fuggito, io ho vissuto: un passato con cui si fanno i conti ancora oggi, con cui non si può smettere di fare i conti, perché il passato è sempre un po’ prossimo e sempre ritorna a farsi sentire, a bruciare.
E non è triste il passato prossimo, è soltanto inevitabile: quello che c’è stato continua a esserci, sempre, anche se cambia di forma e di aspetto, non si sconfigge, non si elimina. Ma è una bugia, anche lui, anche il passato prossimo, ragazzi. Non fidatevi del passato prossimo, di quella sua prossimità così irreale e traditrice. Perché invece troppe cose che ci sono state non ci sono più, adesso; troppe cose sparite, affondate, perse nel tempo passato, che si è fatto remoto, che non sarà mai più prossimo. Lo amerei il mio passato prossimo, se non mi sparisse ogni volta; lo amerei come me stesso, il mio passato prossimo, che così mi era stato comandato. Ma il prossimo rapidamente scompare, e ci resta il remoto.
O il trapassato prossimo, al suo posto, ossimoro verbale, contraddizione in termini del tempo: oltre il passato, ma ancora qui, com’è possibile? Non è possibile infatti. È solo un gioco dei grammatici, delle coniugazioni maledette sui libri di scuola: lui aveva baciato, noi eravamo fuggiti, prima che qualcos’altro accadesse, evidentemente; ma poi quel qualcosa è accaduto, e il suo baciare, il nostro fuggire hanno perso di senso, si sono come eliminati da soli, dentro il tempo che fuggiva pure lui, ma più veloce di noi, più costante, assolutamente imbattibile.
E invece voi siete ragazzi, lo so, e pensate al futuro ed è giusto così. Ma è nel futuro che si annidano le più terribili bugie: di questo, senza cattiveria, garzoncelli scherzosi, devo avvertirvi. Che il futuro sembra semplice, eppure non è mai semplice, nemmeno il futuro semplice. Che sembra semplice proprio per ingannarvi, per farvelo inseguire di corsa, come si corre dietro a un pallone in discesa quando si è bambini: io vivrò, lei arriverà, noi ci abbracceremo… E poi il tempo si incrina, gli ostacoli si frappongono e il futuro diventa complicato, mai più così semplice. Un orizzonte mobile, direbbe qualcuno. Una linea che fugge rapida, che solo in sogno sembra agguantata, ma che è viscida come un’anguilla, quelli dei mari freddi, il freddo del futuro che non arriverà mai come lo si era immaginato. Perché il futuro è soprattutto e sempre anteriore, ragazzi. Lo diceva già un poeta stanco e invecchiato giovane, duemila anni fa: mentre noi parliamo, invidioso sarà fuggito il tempo. Invidioso. Il tempo usa sempre il futuro anteriore, come ostacolo, come inciampo, come sgambetto ai nostri progetti; e anche come sua personale via di fuga. Il tempo che fugge sarà fuggito, infatti. Ecco perché quel poeta invitava la sua ragazza vestita di bianco a carpere diem, a portargli via almeno un giorno a quel futuro troppo complicato per poter essere creduto. Quando avrò diciotto anni; quando guiderò la macchina; quando sarò all’università; quando lavorerò e vivrò da solo; lo so anch’io che è bello il futuro semplice. Ma non c’è da crederci. Ma è troppo bello per essere vero.
Se proprio dovessi darvi un consiglio, vi direi piuttosto: cambiate modo, del tutto; abbassate quell’indice fermo che punta verso il tempo, quell’indicativo così presuntuoso che non sa nulla del tempo e della sua multiformità sfuggente. Cambiate modo, pensate al congiuntivo piuttosto: all’arte dell’accordare, dell’armonizzare, del congiungere appunto. Del tenere insieme l’occhio che vede con l’oggetto che è visto; la soggettività mobile con l’oggettività immobile. E quindi: io credo che tu sia la donna per me; e non: io so che tu sei la donna per me. Quanta saggezza c’è nel congiuntivo, la sentite? È esperienza, il congiuntivo, è lezione che si impara giorno per giorno, fatica dopo fatica, mentre il tempo scorre, appunto: e ho proprio paura che per questo motivo non faccia per voi. Voi che invece avete bisogno di verità, di sicurezza; no, questo il congiuntivo non è capace di farlo, è insicuro il congiuntivo, per definizione.
A volte è anche nostalgico, forse davvero è un modo da vecchi: Se tu mi avessi amato; Se quella volta io l’avessi baciata: Ecco, si lascia andare ai rimpianti il congiuntivo, soprattutto quando è trapassato, ormai lontano e incredibile. Assomiglia al latte versato, in questa sua versione temporale, splendida e inutile. Se quel giorno io non fossi fuggito: ma quel giorno è troppo trapassato per esserci ancora, se non in una frase ipotetica, un rimpianto che è solo grammatica, anche lui.
Meglio la possibilità del congiuntivo imperfetto, che lascia aperte ancora le strade della fiducia: se lei mi amasse; se magari io la baciassi… Ecco, imperfetto ma congiuntivo, è una buona soluzione, lo so. Ci si può, ci si deve affidare ogni tanto al congiuntivo imperfetto. Ma senza esagerare, ragazzi, mi raccomando; che spesso anche se voi la baciaste, troppe cose non potrebbero essere come voi le avete pensate. Perché il congiuntivo imperfetto pensa un po’ troppo al futuro semplice, nella sua ingenuità ragazzina; fa piacere sentirlo, e pensarlo, e immaginarlo; è il modo della fantasia, il congiuntivo imperfetto. Ma i piedi per terra, però… ve l’hanno già detto, no? I piedi per terra sono i nemici del congiuntivo imperfetto. E si impara, con il futuro anteriore, anche a tenere i piedi per terra, prima o poi, e il congiuntivo imperfetto perde la sua forza, la sua energia. Rimane come semplice ipotesi irreale, e non aiuta più, se non nei sogni, i sognatori.
E non vi aiuta nemmeno il condizionale, né presente né passato, che la realtà non si fa con i “se”, la realtà se li divora i “se”, tutti, senza eccezioni. Mi ameresti se, Ti avrei baciato se, Saremmo fuggiti ma. Ecco, lo sentite anche voi quanto sia inutile il condizionale; che i latini nemmeno lo avevano, nella loro saggezza. Lasciatelo perdere, datemi retta. Che può sembrare anche bello, a volte, lo ammetto, ma è tutto trucco: ombretto, matita, ciglia finte, tacchi a spillo e sotto niente. Solo un po’ di fragili illusioni sul presente.
E se proprio dovete, invece, un po’ di tempo presente perdetelo dietro al congiuntivo passato, che ha da dire soltanto l’incertezza, e nient’altro. Io penso che tu mi abbia amato: è il dubbio dell’oggi nei confronti dell’altroieri, il passato che sfugge, come il futuro, che non si fa più prendere, né decifrare. E anche, mi raccomando davvero tanto, state sempre più lontani che potete dall’imperativo, modo zoppo, brutto e storpio, con due sole persone, il tu e il voi, monco, il modo del potere, dell’impero, dell’ordine. Non credere troppo alla forza dell’imperio, che infatti è solo presente, il più misero dei qui e ora, destinato a fuggire ancora prima di essere detto, e obbedito.
Perché il tempo non obbedisce. Se ne sta annidato nei suoi modi più stretti e indecifrabili, anche. Il participio statico e paralitico, l’indeclinabile infinito, lo splendido ma inutile gerundio. Ecco perché, forse, è sulla forma che si potrebbe andare a finire, ad approdare. La forma passiva, lo so che è difficile, ma forse sarà molto utile impararla, ragazzi. La forma del soggetto che subisce l’azione, la forma del subire, del patire, come la passione, quella di Cristo, che tanto ha patito, come quella di tutti, servi di ciò che patiamo, le nostre passioni, che dal patire vengono e al patire tornano. Io sono amato, io sono stato amato, io sarò amato, noi fummo amati, noi non saremo mai abbastanza amati. C’è da crederci sempre un po’ nella forma passiva: il non agire, il non essere attivi, l’acquattarsi in attesa come possibilità di futuro, magari non proprio semplice, ma almeno anteriore…
Sì, lo so, sono cose troppo complicate, voi che mi avevate soltanto chiesto come mai in latino esiste anche l’infinito futuro, e in italiano no. Forse perché i latini riuscivano ancora a pensare a un futuro infinito, mi dico io; mentre il nostro è un futuro breve, spaventato; forse perché a loro l’idea di una strada infinita era ancora concessa. Ma non credo, non lo so, è già piuttosto tardi.
E allora vi guardo uscire dall’aula, sorridenti, mentre vi spingete e sorridete e mi salutate, con il vostro zainetto sulle piccole spalle con dentro tutto il vostro grande enorme futuro. E voi lo avete capito, lo so, un po’ mi avete capito. Che se dovessi proprio scegliere, è su quel pericoloso futuro anteriore che andrei a finire. Perché è tutte e due le cose, il futuro anteriore, è domani ma è anche prima di domani. È la fine, ma è anche quell’attimo prima della fine, in cui tutto cambia, d’improvviso, quando anche solo crederci era diventato impossibile, tutto si spezza e ricomincia. Alla fine, ma un po’ prima della fine.
Perché alla fine sarà il verbo, ragazzi, come in principio. E non più coniugato, sarà il verbo.
Bellissimo post.
Ma, se posso permettermi, ti contesto il draconiano giudizio sul gerundio: guarda qui ch’hanno a fa’ i tedeschi pe’ campa’
Semplicemente meraviglioso. La più bella lezione di italiano di sempre.
Tendete a essere troppo buoni, davvero. Grazie.
ragione e coniugazione ti tengono per la collottola. direi che è ora di aprirsi alla pazzia! 😉
c’ho lo sbarluccichio agli occhi. troppo lungo per essere solo un post, toppo bello per lasciarlo nel recinto di un blog. tu c’hai la poesia del discorso.
bello bello davvero bello. ma tu si’ bravo assai!
Meraviglioso.
E’ una splendida lezione che ci fa riflettere su quanti tempi possieda la lingua italiana.
Complimenti.
[…] verbi e coniugazioni – e a chi se ne prende cura – può essere d’aiuto la malinconica lezione dello scorfano E se non fosse per la sua rarità, anche il trapassato remoto avrebbe la sua stessa ferocia: io […]
A ME PIACE STUDIARE I VERBI
Bellissimo post, complimenti.
Una domanda da ignorante: ma l’imperativo non ha anche la prima persona plurale (ad es. giochiamo! andiamo! dormiamo!)?