Non ho letto il libro Val più la pratica di Andrea De Benedetti, giovane giornalista che si occupa di sport, società e cultura (ma mi riprometto di leggerlo al più presto, però). E quindi il brevissimo appunto che sto per fare è coscientemente parzialissimo; e si riferisce più al post che ieri Luca Sofri ha pubblicato sul blog Wittgenstein, che non al libro medesimo, che non conosco.
Il post, che parla di grammatica e di ortografia, dice che l’importanza delle regole va definita «in base alle loro ragioni d’essere, piuttosto che al loro esistere in quanto regole»; il che è nel complesso vero, secondo me. Non porta esempi espliciti, il post, ma implicitamente ne presenta due. Uno nel titolo (Le cose, cambiano), in cui è marcatissima la presenza della virgola tra soggetto e verbo; il secondo al termine della prima lunga citazione dal libro di Debenedetti, in cui figura (sottolineato da Sofri) un sé stesso, con il pronome personale accentato.
E però, se gli esempi (benché impliciti, ribadisco) sono questi, il discorso perde gran parte della sua efficacia. Leggo infatti la Grammatica italiana di Luca Serianni, rigoroso testo di riferimento dei grammatici italiani pubblicato nel 1989, e vi trovo scritto (I, §177 b):
Senza reale utilità la regola di non accentare sé quando sia seguito da stesso o da medesimo… : è preferibile non introdurre simili eccezioni e scrivere sé stesso, sé medesimo. Va osservato tuttavia che la grafia se stesso è attualmente preponderante.
Cioè, la regola è l’accento, l’uso è il non accento: secondo le grammatiche rigorose. Quindi non è della regola che si sta discutendo, ma, al limite, dell’uso.
E poi, a proposito della virgola tra soggetto e verbo, per cui Serianni porta anche diversi esempi da Manzoni, Pasolini, Bassani, Cassola (I §219):
Non sembrano virgolature sbagliate … , ma esempi di messa in evidenza del soggetto, che equivale, anche nell’intonazione, a un costrutto restrittivo.
Cioè, non solo ammissibile, ma anche necessaria, in contesti in cui si vogliano, tramite il segno di interpunzione, replicare le caratteristiche dell’oralità. Questo diceva, già vent’anni fa, un grammatico di quelli seri. Uno di quegli accademici intransigenti, insomma, che faticano a comprendere le novità.
Skusa, tipo, ma nn kapisko xké dici “il che è nel complesso vero”.
Cioè, kazzo, ma ma io skrivo kome volio, mica kome vuole la regghola.
Nel complesso è vero: le regole si evolvono. Ma nel complesso escludeva proprio le tue cappa (compresa quella del tuo nicneim, caro mfisch).
Tuscé
Caro mfisk, il “xké” con l’accento acuto è una raffinatezza traditrice. L’abbiamo capito tutti che sei dell’Accademia della Krusca. Altro che kappa!
Se ben ricordo, Gesù scese da cavallo per raccogliere una briciola di pane. Una briciola val qualcosa, significava. Oggi no. Tutto deve essere grande, o drammatico, per attrarre l’attenzione. Una briciola? Vale niente. O ‘mica’ tanto, come dice lo scorfano. Invece, un accento dove non va messo, o tolto là dove merita di soggiornare, per qualcuno, purtroppo pochi, conta ancora. E’ una sorta di traduzione grafica del sentimento, espressione leggera della gravità delle cose.
Sogliola, pensa.
Scorfano, condivide.
Ma pensa che cretino!
Sono stato lì a cercare una frase con un bell'”essere” alla 3° singolare dell’indicativo, per poterci schiaffare su un qualcosa tipo “questo é brutto” e non mi ero accorto che avrei potuto mettere un bel “xkè”.
C’è da dire che ho rinunciato al proposito xké temevo che non se ne sarebbero accorti in molti (Scorfano non conta, lui sta con gli editori).
Che pensi per sé 😀
(Ho fame e mi vengono in mente solo ca%%ate. Torno dopo)
A me vengono in mente anche dopo cena…